http://www.lastampa.it/2015/03/26/societa/expo2015/le-frontiere-del-cibo/un-miliardo-di-obesi-tre-di-denutriti-la-sfida-tenere-insieme-piacere-e-sussistenza-YBppWeRdlJFIVJleinSpbJ/pagina.html
«Trasel no!». Messo di fronte ai volti antichi di questi contadini africani, mi ritorna in mente mia nonna.
“Trasel no!” (“Non lo sprecare!). Così ci ammoniva mia nonna Angela ogni volta che ci vedeva mangiare un boccone di companatico senza pane. Angela Recalcati, poi maritata in Scurati, era nata a Bresso, un borgo rurale a Nord di Milano, in una famiglia di contadini a mezzadria, di quelli che cedevano metà del raccolto al padrone. Era nata con il secolo, il 21 aprile del 1900, in un paese povero: l’Italia.
Molti anni dopo, in una Italia divenuta oramai “potenza industriale mondiale”, se riceveva le visite dei nipoti, Angela Recalcati faceva regolarmente la spola tra la casa e il giardino. Lì, piantato nella terra, aveva tutto l’occorrente per preparare il suo minestrone, dai fagioli, alle patate, agli aromi. Disseppelliva gli ortaggi uno a uno, nelle quantità dovute, e li metteva sul fuoco in tegami di rame o d’alluminio che rimontavano al primo Novecento. Il sapore era indimenticabile, anche per dei bambini che di norma odiano il minestrone.
L’orto, anche a più di trent’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, era ancora e sempre un orto di guerra. Non una sola pianta ornamentale allignava nel giardino della villetta dei miei nonni, niente che non desse frutti commestibili.
A volte, per offrirci una leccornia, la nonna pelava le patate, le tagliava a dadini e ce le friggeva. Le friggeva nel burro, del tutto ignara di qualsiasi preoccupazione dietetica o salutistica. Per quelle come lei, che avevano trascorso la gran parte della vita in Italia quando l’Italia era un paese miserabile, il rapporto con il cibo oscillava tra i due poli estremi della pura sussistenza e del puro piacere. Ed era per questo motivo che, se ti vedeva ingoiare un boccone di qualsiasi pietanza non accompagnata da un morso di pane, la nonna ti ammoniva pietosa: “Trasel no!” (“Non lo sprecare!”). D’altra parte, però, per nonna Angela il massimo del godimento su questa terra era una fetta di gorgonzola. Anche quando, vecchia e malata, venne a vivere a casa nostra, nulla poteva impedirle di resistere al richiamo di quel formaggio verminoso.
Una volta mia madre la pescò a notte fonda, già ultraottantenne, con la testa infilata nel frigo. Alla inevitabile reprimenda – i vecchi attirano i rimproveri, in questo soprattutto sono simili ai bambini – la nonna oppose una replica memorabile come una massima latina: “Nunc andem, el zola resta” (“Noi andiamo, il gorgonzola rimane”).
Chissà che il nostro passato remoto e recente – vale a dire quel tempo prossimo eppure lontanissimo in cui vissero i nostri nonni – non possa guidarci verso il futuro del cibo. Dalle nostre parti non si parla d’altro, oramai, che di cibo – o di “food”, se preferite, come dicono le persone veramente “cool” – eppure a volte sembriamo piuttosto smarriti a riguardo. Si ha l’impressione che l’enorme mole di discorso sociale sul “food”, sviluppata dai paesi a capitalismo maturo, di cui il culto idolatrico degli chef è solo l’acuto stonato, sia più un de profundis che non una preghiera esaudita. Noi che, grazie a Dio, non abbiamo mai saputo cosa sia la fame, incantati dal cibo, non riusciamo più a tenere insieme piacere e sussistenza. Per mia nonna Angela, e per generazioni di donne e uomini prima di lei, l’esperienza del cibo si è consumata nell’oscillazione tra questi due poli. Ma per noi, oggi, i poli si sono scissi. Un po’ quel che è accaduto per il sesso e la riproduzione. I piaceri delle nostre tavole abbondanti ignorano la questione della sussistenza che attanaglia miliardi di persone. D’altro canto, l’ipersofisticazione dei nostri riti culinari ci spinge verso una cessione di quella sovranità gaudente che la nonna esercitava azzannando la mattonella di gorgonzola. E, dunque, eccoci qui sempre a parlare ossessivamente di cibo come chi cerchi e non trovi il bandolo della matassa.
In tutta l’Europa occidentale, proprio al principio del nuovo millennio, la filosofia, la letteratura e la politica hanno ceduto il proprio posto alla gastronomia. Un decennio dopo, ovunque ci si volti, si trova qualcuno che affetta un salame proclamando: “Io faccio cultura!”.
Solo pochi anni or sono sarebbe apparso impossibile che fra Platone e l’uovo in camicia, anche se tartufato, fosse il secondo ad assumere la leadership culturale. Eppure è andata così. Il supremo piacere del pensiero si è genuflesso davanti al flan di cardi e il piacere sensoriale si è cerebralizzato in speculazioni infinite.
La musica non cambia nemmeno adesso che ci siamo scoperti più poveri dei nostri padri. Oltre le vetrine dei nostri ristoranti, il popolo continua a ingozzarsi di cibo spazzatura e a sognare il tonno di coniglio invece della rivoluzione.
Nel nostro vecchio mondo satollo la capacità di produrre proteine ha superato quella di generare persone. Ci siamo ripetuti a lungo la leggenda dell’espansione infinita, dei mille anni di sazietà universale, della vita che doveva essere meravigliosa.
Una porzione di carne da 100 grammi economica quanto una pagnotta o una bibita in lattina. L’uomo europeo arrivato a consumare un quarto di chilo di polpa al giorno, il 90% dei cereali d’America ingeriti sotto forma di carne o latticini, 45 chili di pastone di frumento per produrre un singolo chilo di carne. E l’Africa aveva fame, l’India aveva fame, la Cina aveva fame. Occorreva un altro miliardo di tonnellate di granaglie da mangime. Poi ancora uno. E uno ancora. Un mare di fertilizzanti azotati, l’erosione dei suoli, il crollo della resa per ettaro. La gigantesca inefficienza dei bovini da macello. Un miliardo di obesi e tre di denutriti. Era un mondo che non poteva durare.
Finalmente sembriamo averlo capito. Tenere insieme piacere e sussistenza. Ecco la sfida per il nuovo millennio.
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