Le mutazioni spontanee sono uno dei motori dell’evoluzione. Ogni tanto qualche gene viene modificato casualmente da un errore di trascrizione durante la riproduzione. Oppure viene alterato chimicamente da qualche agente mutageno, o dalle radiazioni. La stragrande maggioranza delle mutazioni “naturali” è mortale oppure ininfluente. Se il gene modificato era importante per il metabolismo della specie vivente, una modifica casuale ne porterà quasi sicuramente alla morte, perché ad esempio la proteina codificata da quel gene si ripiega nel modo sbagliato e non può più funzionare. Può succedere invece che il gene non fosse molto importante, ad esempio la codifica del colore degli occhi. Solo rarissimamente viene modificato un gene che altera, senza conseguenze mortali, una caratteristica fondamentale di una specie.
Un altro motore dell’evoluzione naturale sono i processi con cui vengono fusi due genomi di specie diverse, per crearne una terza nuova di zecca, oppure i processi in cui porzioni del DNA di una specie si integrano in una seconda specie, e da questo punto di vista gli organismi transgenici non fanno altro che copiare quanto già avviene in natura.
Nel corso di milioni di anni questi meccanismi hanno agito e hanno trasformato i primi organismi monocellulari, composti da una sola cellula, in pomodori, uomini, peperoni, rinoceronti e volpi. Hanno creato il buonissimo fungo porcino e la mortale amanita Phalloide. Hanno prodotto i batteri con cui fermentiamo lo Yogurt, ma anche il botulino e il colera.
Nel 1865 Gregor Mendel descriveva i meccanismi dell’ereditarietà, e poche decine di anni dopo cominciavano le indagini sulle modifiche genetiche indotte. Nel 1927 Muller mostrò come fosse possibile, mediante i raggi X (quelli con cui vi fate le lastre) modificare geneticamente il moscerino della frutta (la Drosophila melanogaster). L’anno successivo Stadler compie i primi esperimenti con i cereali cercando di modificarli geneticamente con radiazioni nucleari. Stadler cercava in questo modo di ottenere piante con caratteristiche migliorate. Non ebbe molto successo, ma ormai la via era aperta. Dopo la seconda guerra mondiale iniziarono i cosiddetti “usi pacifici dell’energia atomica“. Molti giovani ricercatori nelle nazioni sviluppate ed in quelle in via di sviluppo cominciarono ad utilizzare le radiazioni nucleari con l’obiettivo di modificare le caratteristiche delle piante esistenti. All’inizio i risultati furono piuttosto modesti. Si capì che le radiazioni nucleari erano troppo devastanti, e la stragrande maggioranza delle piante mutate non sopravviveva. Furono scoperte anche delle sostanze chimiche che inducevano mutazioni, come la colchicina. Piano piano si imparò a domare la potenza distruttiva delle radiazioni alfa, beta e gamma, a controllare i neutroni, a dosare i raggi X e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) e la FAO finanziarono e sponsorizzarono una serie di ricerche sulle mutazioni indotte allo scopo di migliorare le caratteristiche di prodotti agricoli.
Gli esperimenti su larga scala però vengono effettuati in campo aperto, in quello che viene chiamato un Gamma Field, un Campo Gamma, di cui potete vedere una foto aerea.
Al centro del cerchio viene messa la sorgente radioattiva, e nei vari settori del cerchio, a varie distanze, vengono piantati i semi delle piantine che si desidera mutare geneticamente. L’esposizione diminuisce all’aumentare della distanza e quindi in questo modo è più facile trovare la dose di radiazioni che genera dei mutanti senza uccidere immediatamente.
Come oggi la FAO sostiene l’uso delle biotecnologie agrarie, così negli anni ‘70 non ebbe paura di sostenere l’utilizzo dell’energia atomica per migliorare cereali e altre piante. Un articolo della Divisione di Tecniche Nucleari in Agricoltura, della FAO/IEAE descrive varie colture mutate ormai diffuse e commercialmente affermate. Ve ne descrivo qualcuna.
FruttaIl database FAO/IAEA segnala almeno 48 tipi di frutta: mele, banane, albicocche, pesche, pere, melograno… Ma la varietà commercialmente di maggiore successo è sicuramente una varietà di pompelmo che tutti voi conoscete: lo Star Ruby dalla polpa rosata. No, il pompelmo rosa non è sempre esistito! La prima varietà commerciale di
pompelmo dalla carne rosata è stato il Ruby Red, derivato da una mutazione spontanea scoperta in Texas nel 1929. Tuttavia il colore rosso sbiadiva all’avanzare della stagione, e il succo non aveva un colore gradevole. Furono utilizzati dei fasci di neutroni lenti per irradiare dei semi di pompelmo, e nel 1970 venne introdotta in commercio la varietà Star Ruby, senza semi e dalla polpa rossastra. Ulteriormente irradiato con neutroni lenti, la Star Ruby generò nel 1984 la varietà Rio Red, con rese migliorate. I frutti di entrambe le varietà mutanti, vendute con il nome di Rio Star, coprono il 75% della produzione Texana di Pompelmo.
Orzo per la birra
I primi esperimenti di mutazione indotta di Stadler, nel 1928, riguardavano l’orzo. Quaranta anni più tardi due varietà di orzo geneticamente modificate con raggi gamma, il Diamant e il Golden Promise avranno un impatto profondo sull’industria della birra e del Whisky in molti paesi d’Europa. La varietà Diamant fu rilasciata per la prima volta in Cecoslovacchia nel 1965. Le piantine erano 15 cm più basse della varietà da cui derivavano e avevano una resa per ettaro aumentata del 12%. Nel 1972 il 43% della superficie di orzo era dedicata al Diamant, e il gene mutato si è diffuso ad altre 150 varietà di orzo attraverso incroci convenzionali. In Scozia fu la varietà Golden Promise, anche lei ottenuta mediante irraggiamento gamma, a diffondersi nell’industria della birra e del Whisky. Ancora oggi, dopo più di 30 anni dalla sua creazione, questa cultivar è ancora molto diffusa.
Grano duro
Alla fine degli anni ‘60 nei laboratori del CNEN (Comitato Nazionale Energia Nucleare, poi trasformato in ENEA), al Centro Studi Nucleari della Casaccia il gruppo del Prof. Scarascia Mugnozza irraggia con fasci di neutroni una gloriosa varietà di grano duro, il Cappelli. (La storia di questo grano, protagonista della cosiddetta “battaglia del grano” nel ventennio fascista, andrebbe raccontata in tutti i particolari con tutti i personaggi: dal Senatore Cappelli, da cui prende il nome, al genetista agrario Nazareno Strampelli, anticipatore di decenni della rivoluzione verde). Come al solito, la stragrande maggioranza dei semi irradiati muore, o produce piante abnormi. Ma una pianticella sopravvive e mostra caratteristiche interessanti. E’ più bassa, più resistente e con rese maggiori del Cappelli. Quel mutante viene incrociato con altre varietà di grano, per trasferire le caratteristiche interessanti, e nel 1974 viene registrato il Creso. Nel giro di pochi anni diventa il grano duro d’elezione, e tutti voi ne avete mangiato a quintali sotto forma di spaghetti, penne, rigatoni, maccheroni etc. Nel 1984 il Creso occupava il 53.3% del mercato italiano di semi certificati di grano, ed era coltivato su 430.000 ettari.
Pasta Radioattiva?
Nel 2000 l’IEAE/FAO pubblicizza il sito web con il suo database e descrive in un articolo gli sviluppi degli ultimi 70 anni del campo della mutagenesi indotta sulle piante in agricoltura. Nel maggio del 2001 un giornalista di un quotidiano tedesco (la Frankfurter Allgemeine Zeitung) pubblica un articolo descrivendo il rapporto. E cita, come ho fatto io, i casi del Pompelmo Texano, della Birra, del Whisky e altri esempi presi dall’articolo dell’IAEA. Cita, come è giusto, anche il grande successo del Creso, dicendo correttamente che la maggior parte della produzione italiana di pasta dipende da questo grano e dai suoi derivati, figli dell’Era Atomica.
Apriti cielo! Quando un’agenzia di stampa rilancia in Italia la notizia, nelle redazioni dei giornali, opera di giornalisti troppo spesso a digiuno di scienza, esplode la febbre degli spaghetti radioattivi. Qualche giornalista, senza prendersi la briga di telefonare ad un Istituto di Agraria delle nostre Università per chiedere spiegazioni, sente la parola “radiazioni”, la accosta agli spaghetti ed ecco servita la pasta radioattiva. Il Ministro dell’Agricoltura dell’epoca, Onorevole Pecoraro Scanio minaccia di denunciare l’ignaro giornalista tedesco, dimostrando ancora una volta la legge per cui spesso i ministri non sono competenti in materia: “non subiremo senza reagire questa offensiva contro il made in Italy. Ho incaricato l’ufficio legale di provvedere a tutelare gli interessi dei nostri produttori. La pasta italiana è sicura al cento per cento“.
La pasta ovviamente non è radioattiva, ma nessuno lo aveva mai messo in dubbio. Le radiazioni, come vi ho spiegato, sono solo servite per indurre una mutazione nella prima pianticella.
(il resto dell'articolo è su: http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/09/29/radiazioni-nucleari-nell’orto/)
(nelle foto: un “campo gamma” e un laboratorio dove si usa del Cesio 137 radioattivo per irraggiare con raggi gamma in basse dosi piante e semi riposti nei ripiani degli armadietti)
martedì 15 marzo 2011
lunedì 14 marzo 2011
Uno storico menu del 1883
(articolo da: http://www.accademiabarilla.it/)
L'eco della marcia nuziale di Mendelssohn si era appena spento, quando a molti invitati venne l'acquolina in bocca leggendo su di una piccola pergamena quello che stava per essere servito sulle regali tavole.
Cadeva il 14 aprile 1883. Nel castello di Nymphenburg in Baviera, il principe reale di Savoia-Genova, Tommaso Alberto Vittorio, duca di Genova, era a fianco della giovane novella sposa, S.A.R. Isabella di Baviera.
Mettendosi finalmente a sedere sulle poltrone di velluto azzurro, colore della Casa regnante, delicatamente sospinte da valletti in alta tenuta, gli sposi avevano dato inizio al pranzo di gala delle loro nozze.
Così come fecero allora i convitati, meno commossi dei principi e con un robusto appetito che si era accresciuto durante la complicata cerimonia, conviene anche a noi, ora, dare un'occhiata al regale menu.
Si tratta di un cilindretto lungo tredici centimetri, chiuso alle due estremità da due corone reali di metallo dorato girevoli e rivestito di seta blu a losanghe di blu più intenso, colori e simboli araldici della Casa Reale di Baviera.
Attorno al cilindro, un nastro sottile a spirale a tre colori: il bianco, rosso e verde dei Savoia, quasi a significare l'abbraccio dello sposo che avvolge la sposa.
Lungo il cilindro si apre una fessura dalla quale esce appena un lembo di pergamena fissato con un nastrino ad una asticciola in ebano, a sua volta collegata alle estremità con una cordicella ritorta a due colori ad un sigillo metallico dorato che recava, in rilievo, il leone rampante della Casa reale di Baviera.
Tirando dolcemente il sigillo si svolge una pergamena lunga ventun centimetri ed alta poco più di undici, decorata, all'intorno, da simboli araldici: a sinistra la figura di un paggio in abiti rinascimentali che regge con il braccio destro gli scudi delle due Case regnanti e con il sinistro indica le portate del menu, che si riavvolge girando delicatamente le corone in senso inverso.
Le portate meritano una attenta lettura. Per essere "à la page" nelle Corti e nelle Case dei potenti si doveva immaginare, pensare e scrivere di cucina secondo i dettami dei grandi cuochi francesi. Soggezione e imitazione non significano però necessariamente esatta e felice interpretazione o alta cucina impeccabile.
Si inizia con le ostriche. Il potage caldo, che apre opportunamente lo stomaco è seguito dall'Hors-d'œvre, con un ottimo Salmone del Reno, ma servito con una Sauce Bernaise, utilizzata solitamente per carni alla griglia. Alle Atelettes al fois gras succede una insolita Sella di renna, servita però con una Salsa Cumberland abitualmente associata alla selvaggina fredda.
Le Entrée propongono nuovamente selvaggina, con delle modeste beccacce primaverili, magnificamente guarnite, però, con tartufi, per poi tornare, poco opportunamente, al pesce, con aragoste e sauce mayonnaise, creando qualche difficoltà col vino. La Granita d'Ananas, allora non certo alla portata di tutti come oggi, alleggerisce e prepara all'Arrosto di Polletti (ma dopo le beccacce meglio sarebbe stato un arrosto di bue) con Asparagi.
Il pranzo regale si concludeva con Gelatina al vino di Champagne, Gelato, Frutta e Dessert.
Il menu si caratterizza, comunque, per la classica successione e per le presenze "canoniche" del brodo in apertura, degli arrosti e del dessert finale.
Però, ad un evidente intento di magnificenza e ricercatezza dei singoli cibi non fa seguito un corretto ordinamento dei piatti ed una oculata gestione dei vini. Poteva accadere anche alla Corte di un Re…
(testo e immagine da: http://www.accademiabarilla.it/)
L'eco della marcia nuziale di Mendelssohn si era appena spento, quando a molti invitati venne l'acquolina in bocca leggendo su di una piccola pergamena quello che stava per essere servito sulle regali tavole.
Cadeva il 14 aprile 1883. Nel castello di Nymphenburg in Baviera, il principe reale di Savoia-Genova, Tommaso Alberto Vittorio, duca di Genova, era a fianco della giovane novella sposa, S.A.R. Isabella di Baviera.
Mettendosi finalmente a sedere sulle poltrone di velluto azzurro, colore della Casa regnante, delicatamente sospinte da valletti in alta tenuta, gli sposi avevano dato inizio al pranzo di gala delle loro nozze.
Così come fecero allora i convitati, meno commossi dei principi e con un robusto appetito che si era accresciuto durante la complicata cerimonia, conviene anche a noi, ora, dare un'occhiata al regale menu.
Si tratta di un cilindretto lungo tredici centimetri, chiuso alle due estremità da due corone reali di metallo dorato girevoli e rivestito di seta blu a losanghe di blu più intenso, colori e simboli araldici della Casa Reale di Baviera.
Attorno al cilindro, un nastro sottile a spirale a tre colori: il bianco, rosso e verde dei Savoia, quasi a significare l'abbraccio dello sposo che avvolge la sposa.
Lungo il cilindro si apre una fessura dalla quale esce appena un lembo di pergamena fissato con un nastrino ad una asticciola in ebano, a sua volta collegata alle estremità con una cordicella ritorta a due colori ad un sigillo metallico dorato che recava, in rilievo, il leone rampante della Casa reale di Baviera.
Tirando dolcemente il sigillo si svolge una pergamena lunga ventun centimetri ed alta poco più di undici, decorata, all'intorno, da simboli araldici: a sinistra la figura di un paggio in abiti rinascimentali che regge con il braccio destro gli scudi delle due Case regnanti e con il sinistro indica le portate del menu, che si riavvolge girando delicatamente le corone in senso inverso.
Le portate meritano una attenta lettura. Per essere "à la page" nelle Corti e nelle Case dei potenti si doveva immaginare, pensare e scrivere di cucina secondo i dettami dei grandi cuochi francesi. Soggezione e imitazione non significano però necessariamente esatta e felice interpretazione o alta cucina impeccabile.
Si inizia con le ostriche. Il potage caldo, che apre opportunamente lo stomaco è seguito dall'Hors-d'œvre, con un ottimo Salmone del Reno, ma servito con una Sauce Bernaise, utilizzata solitamente per carni alla griglia. Alle Atelettes al fois gras succede una insolita Sella di renna, servita però con una Salsa Cumberland abitualmente associata alla selvaggina fredda.
Le Entrée propongono nuovamente selvaggina, con delle modeste beccacce primaverili, magnificamente guarnite, però, con tartufi, per poi tornare, poco opportunamente, al pesce, con aragoste e sauce mayonnaise, creando qualche difficoltà col vino. La Granita d'Ananas, allora non certo alla portata di tutti come oggi, alleggerisce e prepara all'Arrosto di Polletti (ma dopo le beccacce meglio sarebbe stato un arrosto di bue) con Asparagi.
Il pranzo regale si concludeva con Gelatina al vino di Champagne, Gelato, Frutta e Dessert.
Il menu si caratterizza, comunque, per la classica successione e per le presenze "canoniche" del brodo in apertura, degli arrosti e del dessert finale.
Però, ad un evidente intento di magnificenza e ricercatezza dei singoli cibi non fa seguito un corretto ordinamento dei piatti ed una oculata gestione dei vini. Poteva accadere anche alla Corte di un Re…
(testo e immagine da: http://www.accademiabarilla.it/)
domenica 13 marzo 2011
Storia gastronomica dell'Unità d'Italia
(articolo da: http://www.academiabarilla.it/ )
La storica e prolungata divisione amministrativa in numerosi "stati" aveva favorito la nascita di cucine locali, esaltate, negli aspetti più alti, dalle singole Corti che, a fianco di cibi e menu "internazionali", non disdegnavano di inserire il meglio delle tipicità locali.
Divisi politicamente e divisi gastronomicamente, gli italiani avevano però saputo valorizzare le risorse di ogni territorio, sviluppando una "diversità", o meglio, una "gastro-diversità" sconosciuta negli Stati unitari che avevano ormai codificato una "cucina nazionale", forse meno ricca, ma sicuramente più rappresentativa.
È il caso, ben noto, della Francia, (la cui cucina, peraltro, molto deve, storicamente, all'Italia) che impone la propria gastronomia a livello internazionale: la cucina "ufficiale" delle Corti d'Europa è francese, come i menu e la lingua di cucina. E anche i pranzi ufficiali del neonato Stato italiano non sfuggono, paradossalmente, a questa logica e vengono descritti in francese, almeno fino al primo decennio del Novecento, quando sarà un motu proprio di Vittorio Emanuele ad introdurre la lingua patria sui menu di Casa Savoia.
La ricchezza e varietà della cucina italiana - ben delineata dal suo primo "codificatore", il romagnolo Pellegrino Artusi (1820-1911), che nel suo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato la prima volta a Firenze nel 1891, dà sistematicità ed organizzazione alla cucina della nascente borghesia italiana, recupera i piatti più popolari e "semplifica" le preparazioni delle cucine di Corte ad uso di una classe sociale in progressiva crescita economica e sociale.
Ma, seppure l'Artusi abbia l'indubbio merito di aver unito gli italiani (almeno a tavola), le sostanziali diversità regionali permangono anche a livello gastronomico.
Le guerre mondiali
Paradossalmente, è il primo conflitto mondiale che contribuisce, attraverso i razionamenti e la distribuzione di un rancio uniforme, a creare un modello alimentare nazionale e ad indurre aspettative di consumo ben diverse rispetto alle precedenti abitudini dei soldati: il caffè viene assegnato d’ufficio, così come altri alimenti (400 g di gallette, 200 g di carne in scatola, pasta secca, brodi concentrati e ragù pronti). Il nuovo gusto di massa così determinato, si consoliderà successivamente grazie all’azione capillare dell’industria conserviera.
Il Ventennio (1922-1942) è contrassegnato da una politica di contenimento dei consumi alimentari e da una spinta all’autarchia che, in ambito culinario, portano all’esaltazione degli antipasti e dei prodotti locali (salumi, conserve, sottoli e sottaceti) e, a livello nutrizionale, spingono la popolazione a scegliere una dieta fondata principalmente sui frutti e le messi della terra patria. Così, ancora una volta, il nostro Paese deve rinunciare alla carne e, per amore o per forza, si allinea a quella “dieta mediterranea” che, per ironia della sorte, dopo pochi decenni sarà tanto - e giustamente - celebrata dai nutrizionisti stranieri.
Ben diverso, è il caso della seconda guerra mondiale, segnata in modo drammatico, questa volta, dai tesseramenti alimentari e dall’incapacità dello Stato di far fronte alle necessità energetiche dei militi e dei comuni cittadini. In questi terribili anni, l’Italia raggiunge livelli nutrizionali bassissimi, tali da far temere per la stessa sopravvivenza della Nazione.
Il dopoguerra e il boom economico
La ricostruzione materiale del Paese porta la voglia, in cucina, di ostentare il benessere e l'abbondanza: finalmente la carne - vero e proprio status symbol - arriva sulle mense di tutti e le preparazioni si fanno ricche, elaborate, ridondanti.
Dopo i favolosi anni del “boom” economico, l’Italia si ritrova totalmente cambiata. L’industria alimentare utilizza ormai in modo disinvolto le tecnologie per creare cibi tradizionali e innovativi e, forse proprio per questo, dagli anni Settanta si percepisce un diffuso desiderio di ritorno alla natura sana ed incontaminata - è il processo noto come greening of demand - che i pubblicitari non tardano a cavalcare. Le differenze nei comportamenti di consumo, tra Nord e Sud del Paese, si sono finalmente livellate, anche grazie all’ingente emigrazione interna tra 1955 e 1971.
La nascita di una società veramente moderna, ha determinato la diffusione di diverse abitudini alimentari: ad esempio, il più rilevante ricorso alla ristorazione extradomestica; il consumo di snack e cibi pronti; la destrutturazione dei pasti (metafora di profondi cambiamenti sociali); la sempre più evidente delocalizzazione dei prodotti.
La globalizzazione e la difesa dei prodotti tipici
Il fenomeno economico e culturale della globalizzazione che ha preso piede dagli anni Ottanta del Novecento e connota la società contemporanea in modo sempre più marcato, ha contribuito a far nascere il concetto di "prodotto locale".
In precedenza, infatti, le tradizioni rurali erano percepite, semplicemente e acriticamente, come abitudini radicate e immutabili.
Il fattore-piacere rimane essenziale, e il concetto di "qualità" diviene ogni giorno, più importante sposandosi con la valorizzazione di "tipicità" e "giacimenti gastronomici" locali di cui l'Italia è, fortunatamente, ancora ricchissima.
Così che, nella cucina "globale" e di massa la "gastro-diversità" diviene fattore strategico di fondamentale importanza.
(immagini da: http://www.gdapress.it/ e http://www.tipicamente.it/)
La storica e prolungata divisione amministrativa in numerosi "stati" aveva favorito la nascita di cucine locali, esaltate, negli aspetti più alti, dalle singole Corti che, a fianco di cibi e menu "internazionali", non disdegnavano di inserire il meglio delle tipicità locali.
Divisi politicamente e divisi gastronomicamente, gli italiani avevano però saputo valorizzare le risorse di ogni territorio, sviluppando una "diversità", o meglio, una "gastro-diversità" sconosciuta negli Stati unitari che avevano ormai codificato una "cucina nazionale", forse meno ricca, ma sicuramente più rappresentativa.
È il caso, ben noto, della Francia, (la cui cucina, peraltro, molto deve, storicamente, all'Italia) che impone la propria gastronomia a livello internazionale: la cucina "ufficiale" delle Corti d'Europa è francese, come i menu e la lingua di cucina. E anche i pranzi ufficiali del neonato Stato italiano non sfuggono, paradossalmente, a questa logica e vengono descritti in francese, almeno fino al primo decennio del Novecento, quando sarà un motu proprio di Vittorio Emanuele ad introdurre la lingua patria sui menu di Casa Savoia.
La ricchezza e varietà della cucina italiana - ben delineata dal suo primo "codificatore", il romagnolo Pellegrino Artusi (1820-1911), che nel suo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato la prima volta a Firenze nel 1891, dà sistematicità ed organizzazione alla cucina della nascente borghesia italiana, recupera i piatti più popolari e "semplifica" le preparazioni delle cucine di Corte ad uso di una classe sociale in progressiva crescita economica e sociale.
Ma, seppure l'Artusi abbia l'indubbio merito di aver unito gli italiani (almeno a tavola), le sostanziali diversità regionali permangono anche a livello gastronomico.
Le guerre mondiali
Paradossalmente, è il primo conflitto mondiale che contribuisce, attraverso i razionamenti e la distribuzione di un rancio uniforme, a creare un modello alimentare nazionale e ad indurre aspettative di consumo ben diverse rispetto alle precedenti abitudini dei soldati: il caffè viene assegnato d’ufficio, così come altri alimenti (400 g di gallette, 200 g di carne in scatola, pasta secca, brodi concentrati e ragù pronti). Il nuovo gusto di massa così determinato, si consoliderà successivamente grazie all’azione capillare dell’industria conserviera.
Il Ventennio (1922-1942) è contrassegnato da una politica di contenimento dei consumi alimentari e da una spinta all’autarchia che, in ambito culinario, portano all’esaltazione degli antipasti e dei prodotti locali (salumi, conserve, sottoli e sottaceti) e, a livello nutrizionale, spingono la popolazione a scegliere una dieta fondata principalmente sui frutti e le messi della terra patria. Così, ancora una volta, il nostro Paese deve rinunciare alla carne e, per amore o per forza, si allinea a quella “dieta mediterranea” che, per ironia della sorte, dopo pochi decenni sarà tanto - e giustamente - celebrata dai nutrizionisti stranieri.
Ben diverso, è il caso della seconda guerra mondiale, segnata in modo drammatico, questa volta, dai tesseramenti alimentari e dall’incapacità dello Stato di far fronte alle necessità energetiche dei militi e dei comuni cittadini. In questi terribili anni, l’Italia raggiunge livelli nutrizionali bassissimi, tali da far temere per la stessa sopravvivenza della Nazione.
Il dopoguerra e il boom economico
La ricostruzione materiale del Paese porta la voglia, in cucina, di ostentare il benessere e l'abbondanza: finalmente la carne - vero e proprio status symbol - arriva sulle mense di tutti e le preparazioni si fanno ricche, elaborate, ridondanti.
Dopo i favolosi anni del “boom” economico, l’Italia si ritrova totalmente cambiata. L’industria alimentare utilizza ormai in modo disinvolto le tecnologie per creare cibi tradizionali e innovativi e, forse proprio per questo, dagli anni Settanta si percepisce un diffuso desiderio di ritorno alla natura sana ed incontaminata - è il processo noto come greening of demand - che i pubblicitari non tardano a cavalcare. Le differenze nei comportamenti di consumo, tra Nord e Sud del Paese, si sono finalmente livellate, anche grazie all’ingente emigrazione interna tra 1955 e 1971.
La nascita di una società veramente moderna, ha determinato la diffusione di diverse abitudini alimentari: ad esempio, il più rilevante ricorso alla ristorazione extradomestica; il consumo di snack e cibi pronti; la destrutturazione dei pasti (metafora di profondi cambiamenti sociali); la sempre più evidente delocalizzazione dei prodotti.
La globalizzazione e la difesa dei prodotti tipici
Il fenomeno economico e culturale della globalizzazione che ha preso piede dagli anni Ottanta del Novecento e connota la società contemporanea in modo sempre più marcato, ha contribuito a far nascere il concetto di "prodotto locale".
In precedenza, infatti, le tradizioni rurali erano percepite, semplicemente e acriticamente, come abitudini radicate e immutabili.
Il fattore-piacere rimane essenziale, e il concetto di "qualità" diviene ogni giorno, più importante sposandosi con la valorizzazione di "tipicità" e "giacimenti gastronomici" locali di cui l'Italia è, fortunatamente, ancora ricchissima.
Così che, nella cucina "globale" e di massa la "gastro-diversità" diviene fattore strategico di fondamentale importanza.
(immagini da: http://www.gdapress.it/ e http://www.tipicamente.it/)
sabato 12 marzo 2011
DAIFUKU
Daifuku è un dolce tipico giapponese composto da un mochi (dolce di farina di riso), che si può colorare a piacere, ripieno di anko (una specie di marmellata di fagioli rossi azuki).
Originariamente i Daifuku erano chiamati Harabutu Mochi, che significa “dolce di riso dalla pancia gonfia” proprio per il tipico ripieno che lo caratterizza. Per la sua buffa forma era considerato uno tra i Wagashi (dolci tipici giapponesi) più brutti. Successivamente però il nome venne cambiato in “dolce di riso dalla grande pancia“. Poichè però la pronuncia di “pancia” è uguale a quella di “fortu
na” (cioè “Fuku=福), il nome cambiò completamente in Daifuku Mochi, cioè “dolce di riso della grande fortuna“, diventando addirittura regalo da cerimonia o dolce portafortuna.
Preparare un Daifuku non è difficile e non sono necessari molti ingredienti. Servono infatti solo: acqua, farina di riso, anko e zucchero.
Il tipico Daifuku è quello servito con il ripieno di anko e ricoperti all’esterno con un sottilissimo strato di amido di mais o zucchero a velo per impedire che, appiccicoso com’è, si attacchi alle dita.
Esistono però altre varianti di questo dolce come lo Yomogi-Daifuku, una varietà preparata con il kusa-mochi, un dolce all’aroma di artemisia, oppure l’Ichigo-Daifuku, una varietà di Daifuku molto famosa introdotta negli anni ‘80.
Quest’ultima variante è molto particolare, famosa perchè contiene al suo interno oltre ad anko anche una fragola, purtroppo però è possibile mangiarlo solo in primavera con la stagione delle fragole.
(testo da: http://sakuramagazine.com; foto dal web)
Originariamente i Daifuku erano chiamati Harabutu Mochi, che significa “dolce di riso dalla pancia gonfia” proprio per il tipico ripieno che lo caratterizza. Per la sua buffa forma era considerato uno tra i Wagashi (dolci tipici giapponesi) più brutti. Successivamente però il nome venne cambiato in “dolce di riso dalla grande pancia“. Poichè però la pronuncia di “pancia” è uguale a quella di “fortu
na” (cioè “Fuku=福), il nome cambiò completamente in Daifuku Mochi, cioè “dolce di riso della grande fortuna“, diventando addirittura regalo da cerimonia o dolce portafortuna.
Preparare un Daifuku non è difficile e non sono necessari molti ingredienti. Servono infatti solo: acqua, farina di riso, anko e zucchero.
Il tipico Daifuku è quello servito con il ripieno di anko e ricoperti all’esterno con un sottilissimo strato di amido di mais o zucchero a velo per impedire che, appiccicoso com’è, si attacchi alle dita.
Esistono però altre varianti di questo dolce come lo Yomogi-Daifuku, una varietà preparata con il kusa-mochi, un dolce all’aroma di artemisia, oppure l’Ichigo-Daifuku, una varietà di Daifuku molto famosa introdotta negli anni ‘80.
Quest’ultima variante è molto particolare, famosa perchè contiene al suo interno oltre ad anko anche una fragola, purtroppo però è possibile mangiarlo solo in primavera con la stagione delle fragole.
(testo da: http://sakuramagazine.com; foto dal web)
giovedì 10 marzo 2011
PEPERONI FARCITI
Tagliare in quattro e ripulire dai semi dei peperoni gialli o rossi. Cuocerli qualche minuto in forno o in microonde o sbollentarli. Io li metto nel microonde per 5 o 8 minuti, rigirandoli una volta sottosopra in modo da ammorbidire anche la pelle, che però poi lascio. Spalmare su ogni fetta di peperone della crema di acciughe (si trova in commercio in vasetti di vetro: è fatta con acciughe, olio, aceto, erbe aromatiche) oppure con pasta d'acciughe. Sistemare poi su ogni fetta di peperone una fettina di mozzarella. Mettere in una teglia e cuocere in forno a media temperatura per pochi minuti, finchè la mozzarella non sia morbida. Servire tiepido.

martedì 8 febbraio 2011
CIPOLLINE IN ACETO BALSAMICO
In un tegame scaldare un filo d'olio, aggiungere poi le cipolline -acquistate già pulite- e farle cuocere qualche minuto. Quando sono appena dorate da ambo le parti aggiungere sale oppure del dado vegetale sbriciolato e dell'aceto balsamico. Far cuocere col coperchio, tenendo d'occhio che non asciughino troppo; in quel caso aggiungere un pò d'acqua. Dopo 15 minuti dovrebbero essere cotte, morbide ma non troppo molli.
Nella prima foto il momento della cottura, nella seconda il risultato finale.
Nella prima foto il momento della cottura, nella seconda il risultato finale.
domenica 6 febbraio 2011
U tuccu: il sugo di carne ligure (da:http://liguriadamangiare.it/)
La parola tuccu o tocco, significa semplicemente sugo con pezzi, quindi si può benissimo parlare di tuccu alle noci o tuccu di funzi (funghi) anche se oramai nella tradizione con questo termine si indica il cosiddetto tuccu alla zeneize: il sugo di carne e funghi. Tuccu perché la carne deve essere a pezzi abbastanza grossi da non sfaldarsi del tutto nella lunga cottura; così si avrà già un ottimo secondo. Nelle sue varie declinazioni il tuccu può contenere carne di vari animali: oggi si predilige l’utilizzo del manzo, come polpa e (anche se ormai è usato molto raramente) come midollo.
Il tuccu è a tutti gli effetti un sugo, anche se la lunga preparazione lo differenzia un pochino dai sughi classici. Con il tuccu si può sfatare un mito legato alla cucina ligure, ovvero la parsimonia nell’utilizzo della carne a favore delle verdure. Se ciò era vero soprattutto nel ponente ligure, nel genovesato l’acquisto e utilizzo della carne non era così proibitivo: la carne veniva consumata in modo piuttosto abbondante, magari nei ripieni (ma solo per renderla accessibile anche a chi non poteva masticare, visto che nel Medioevo le dentiere non esistevano) e, come abbiamo visto per la cima, a volte era utilizzata come “contenitore” di prodotti ben più costosi.
Il tuccu è sicuramente il sugo più sontuoso del panorama ligure. Una lunghissima cottura nei tradizionali “cocci”, ovvero le pentole in terracotta, renderà questo sugo ottimo sposo della pasta fresca e dei ravioli.
(testo e foto da: http://liguriadamangiare.it/)
Il tuccu è a tutti gli effetti un sugo, anche se la lunga preparazione lo differenzia un pochino dai sughi classici. Con il tuccu si può sfatare un mito legato alla cucina ligure, ovvero la parsimonia nell’utilizzo della carne a favore delle verdure. Se ciò era vero soprattutto nel ponente ligure, nel genovesato l’acquisto e utilizzo della carne non era così proibitivo: la carne veniva consumata in modo piuttosto abbondante, magari nei ripieni (ma solo per renderla accessibile anche a chi non poteva masticare, visto che nel Medioevo le dentiere non esistevano) e, come abbiamo visto per la cima, a volte era utilizzata come “contenitore” di prodotti ben più costosi.
Il tuccu è sicuramente il sugo più sontuoso del panorama ligure. Una lunghissima cottura nei tradizionali “cocci”, ovvero le pentole in terracotta, renderà questo sugo ottimo sposo della pasta fresca e dei ravioli.
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