giovedì 31 marzo 2011

Pesce d'Aprile

Ingredienti per 4 persone: 250 g tonno, 500 g  di patate lesse, maionese, 1 cucchiaio capperi, cetriolini sott'aceto, peperoni sott'aceto, carciofini sott'olio

Preparazione: tritate il tonno, i capperi e qualche carciofino. Schiacciate al passaverdura le patate; impastate il tutto e cercate di ottenere la forma di un pesce (ideale usare uno stampo apposito, ben oleato oppure fasciato internamente con domopak, dove verserete il composto e che metterete in frigo per qualche ora). Ponete il pesce finto in un piatto da portata, ricopritelo di maionese e guarnitelo a piacere, anche con i cetriolini e i peperoni.
(foto da: cookaround.com)

sabato 19 marzo 2011

Alimentazione nel 1800

Agli inizi dell’Ottocento ci troviamo di fronte ad una eccezionale “forza delle idee”, accompagnata da un accumulo di ricchezze da parte dei paesi colonialisti mai visto prima, da uno sviluppo altrettanto impressionante delle più importanti scoperte scientifiche della intera storia dell’umanità, dal perfezionamento delle tecnologie relative alle attività agricole e zootecniche, dalla crescita di paesi emergenti come gli Stati Uniti d ‘America, dai commerci europei e poi mondiali che si sviluppano a dismisura, soprattutto intorno alla metà dell’Ottocento, grazie alla ferrovia.
Per quanto riguarda l’alimentazione, basterà immaginare i milioni di tonnellate di prodotti alimentari che si spostano ormai rapidamente per centinaia di chilometri; pensare alle scoperte di Louis Pasteur e di Nicolas Appert, che apriranno la strada dell’inscatolamento industriale di carne, verdure e minestre, oppure pensare alle nuove tecniche di refrigerazione e di congelazione.
Nel 1850 il mattatoio di Londra si trova ad Aberdeen, a 800 km dalla capitale e ogni mattina giungono in città “ montagne di ottime carni macellate il giorno prima” come riportano le cronache dell’epoca.
Inutile rievocare le terribili condizioni di vita del primo proletariato inglese, pane duro e tè…
Ma la logica della produzione industriale non può mantenere escluse a lungo le masse, le classi inferiori, dal godimento di almeno parte delle risorse alimentari. Verdure, prodotti in scatola, zucchero, cacao e infine carne vengono offerti a prezzi via via più accessibili.
Parlare di Europa è particolarmente difficile; in troppe regioni del continente le situazioni sono “arcaiche”, legate soltanto all’agricoltura ed a un poco di pastorizia; il consumo di prodotti locali è ancora l’unico presente. L’Italia moderna, la cui data di nascita è, come ben sappiamo, il 1860 ne è un clamoroso esempio.
L’Europa è di nuovo divisa in due, non per abitudini, cultura o religione, ma per ricchezza. In ogni caso si possono intravedere verso la fine dell’Ottocento alcune situazioni che risulteranno evidenti nel XX sec:.
-si allenta il vincolo tra alimenti e territorio e si amplia a dismisura l’offerta di massa di ogni genere di prodotto alimentare
-si uniformano, seppure lentamente, i modelli alimentari
-i modelli alimentari diventano urbani, non soltanto perché le grandi città crescono in maniera esponenziale, poiché la società industriale è una società a alto tasso di urbanizzazione o se preferite di concentrazione di persone e di ricchezza, ma anche perché la città propone veri e propri modelli, che seppure in continua evoluzione, valgono per tutti
Questa Storia comincia soprattutto nel Nord Europa; l’Italia viaggia con molto ritardo….La nostra rivoluzione alimentare di massa dovremmo datarla 1950!


(tratto da un articolo di: http://www.lacucinaitaliana.it/)

mercoledì 16 marzo 2011

Gnocchi TRICOLORI

Per festeggiare in modo semplice acquistate degli gnocchi ai tre colori e conditeli semplicemente con burro e formaggio, oppure olio d'oliva extravergine e pinoli.






Oppure fate, o acquistate, degli gnocchi di patate normali e conditeli con tre sughi diversi: il pesto, il burro (o l'olio) e formaggio, e il pomodoro. Serviteli insieme e Buon Compleanno Italia!

martedì 15 marzo 2011

Garibaldi e la mensa essenziale

Giuseppe Garibaldi di carattere irrequieto e avventuriero, già da giovanissimo s’imbarcò come marinaio. Appena venticinquenne fu capitano di un mercantile, e durante uno dei suoi viaggi conobbe il gruppo di esuli liguri che lo iniziarono alle idee della “Giovine Italia”. Avvicinatosi ai movimenti patriottici europei ed italiani, abbracciò gli ideali di libertà ed indipendenza cari a Mazzini. Garibaldi a ventisette anni scappò esule in America Latina, combattendo per l’indipendenza di Brasile e Uruguay. Trentacinquenne sposò la compagnia Anita a Montevideo, formando poco dopo con altri esuli, quella “Legione Italiana” che vestirà per la prima volta la leggendaria camicia rossa.
L'eroe dei due Mondi aveva abitudini alimentari semplici ed essenziali. Sopra alla sua mensa spiccavano rustiche zuppe di verdure e legumi, stoccafisso, salame, formaggio, fichi secchi, anche se non disdegnava preparazioni come le “trenette al pesto”.
Le gallette da marinaio con uva passa sembra che fossero il dessert preferito dal generale, e i “Biscotti Garibaldi”, squisite gallette con uva passa ancora oggi in vendita nei grandi negozi inglesi, sarebbero ispirati a questa sua golosità.
Il pesce cotto appena pescato, condito con il solo sapore del mare era una costante della sua tavola. Egli amava mangiarlo anche crudo, come sappiamo da un ricordo di Clelia che descrive il padre a Caprera intento a gustare scampi, ancora gocciolanti d’acqua salata, su un pezzo di giornale come tovaglia. Quelli furono anche gli anni nei quali, dopo i trionfi della spedizione dei Mille, Garibaldi si dedicò all'agricoltura e all'apicoltura, definita da lui stesso “occupazione prediletta”, in una lettera indirizzata al Presidente della Società Italiana di Apicoltura.
Stando alle numerose testimonianze scritte successive al 1860 egli considerava se stesso non solo un uomo d’armi ma anche un qualificato agricoltore. Proviene dal diario della figlia Clelia la bella immagine che ritrae il famoso condottiero in questa veste:
“M’era tanto caro aiutare Papà in qualche lavoretto. Ero io, per esempio, che, nella stagione invernale, portavo il miele alle api. D’inverno, senza fiori, nelle arnie si fa la fame. Io entravo con due piattini, uno per mano, ripieni del dolce nettare e li posavo vicino alle arnie, non senza un vago senso di paura per le tante api che mi svolazzavano intorno”.
Alcuni cronisti ritengono che la "spedizione dei Mille” di Garibaldi abbia contribuito non solo alla realizzazione dell’unità d’Italia, ma anche alla diffusione della pasta in tutta la penisola.
Massimo Montanari, autore del "Convivio oggi: storia e cultura dei piaceri della tavola nell'età contemporanea", a proposito di Garibaldi riporta questa cronaca.
Nella pubblicazione "Il ventre di Mi­lano" del 1888, opera collettiva che avrebbe dovuto illu­strare la vera fisiologia della capitale morale d'Italia si legga la cronaca di un pranzo allestito a Pavia, in tutta fretta e con qualche problema organizzativo, per la venuta di Garibaldi.
Correva il 1861. Era il tempo degli entusia­smi per Garibaldi. Non fa d'uopo di spiegare il perché.
I pavesi un giorno vengono a sapere che il grand'uomo doveva venir nella loro città a trovare la madre di Cairoli, e organizzano il banchetto. Chi fosse curioso di leggere la re­lazione, dirò così, ufficiale di quel pranzo, non ha che a con­sultare i giornali di quell'epoca grande e gloriosa. [...]
A tavola erano quattrocento. Sedevano nella grande sala a primo piano dell'albergo dei Tre Re di proprietà del signor Pietro Galli.
Nel menu... ci dovevano essere tra gli altri piatti del branzino in bianco e delle pernici in salmì. Il signor Galli sulle prime si grattò in capo. Dove si pigliano lì per lì dei branzini e delle pernici per quattrocento garibal­dini, giovani pieni di valore ma anche di appetito? Eppure non si poteva far a meno.
C'era in quel tempo a Pavia il signor Federico Carini, uno de' più strenui camerieri di albergo e di restaurant ch'io conosca. Egli è capace di servire quaranta persone, disperse in molti tavoli, da solo. Tant'è vero ch'egli è unico nel re­staurant della Porta Lunga in piazza Santo Stefano, frequen­tatissimo specialmente nelle domeniche, e nessuno si lamen­tò mai d'essere stato lasciato in dimenticanza. Egli è il Pico della Mirandola dei camerieri. Con lui stava anche un certo Baldi, che ora fa il mediatore. Carini fu chiamato dal Galli, il quale gli confidò d'aver preparati sessanta piccioni e venti fra trote e lucci, che dovevano passare per pernici e per bran­zini. Mancargli soltanto ventisei teste e ventisei code di vere pernici per la presentazione in tavola. Carini a queste finzio­ni non era nuovo certamente. Pure pensando che il trucco si doveva farlo a Garibaldi, sulla prima reagì. Ma necessità non ha legge. Il tempo stringeva. Per quattrocento persone ci volevano almeno sessanta pernici. E si sa bene che non si trovano sempre lì covate e a giusto punto sessanta pernici. Di teste e di code perniciose invece v'ha sempre buona scorta ne­gli alberghi. Vada dunque pei piccioni. Tanto e tanto il salmì saprà far miracolo. Si è cuochi o non si è cuochi?
Garibaldi del resto non ne toccò. Egli mangiò due fettine di prosciutto, un'aringa, e un po' di luccio-branzino. Rifiutò tutto il resto. Il pranzo costò ai sottoscrittori ottocento lire.
(testo e foto da: http://www.taccuinistorici.it; nella foto Garibaldi e la figlia Clelia nel 1876)

Irradiate irradiate, qualche cosa muterà

(parte di un articolo di Dario Bressanini)
Le mutazioni spontanee sono uno dei motori dell’evoluzione. Ogni tanto qualche gene viene modificato casualmente da un errore di trascrizione durante la riproduzione. Oppure viene alterato chimicamente da qualche agente mutageno, o dalle radiazioni. La stragrande maggioranza delle mutazioni “naturali” è mortale oppure ininfluente. Se il gene modificato era importante per il metabolismo della specie vivente, una modifica casuale ne porterà quasi sicuramente alla morte, perché ad esempio la proteina codificata da quel gene si ripiega nel modo sbagliato e non può più funzionare. Può succedere invece che il gene non fosse molto importante, ad esempio la codifica del colore degli occhi. Solo rarissimamente viene modificato un gene che altera, senza conseguenze mortali, una caratteristica fondamentale di una specie.
Un altro motore dell’evoluzione naturale sono i processi con cui vengono fusi due genomi di specie diverse, per crearne una terza nuova di zecca, oppure i processi in cui porzioni del DNA di una specie si integrano in una seconda specie, e da questo punto di vista gli organismi transgenici non fanno altro che copiare quanto già avviene in natura.
Nel corso di milioni di anni questi meccanismi hanno agito e hanno trasformato i primi organismi monocellulari, composti da una sola cellula, in pomodori, uomini, peperoni, rinoceronti e volpi. Hanno creato il buonissimo fungo porcino e la mortale amanita Phalloide. Hanno prodotto i batteri con cui fermentiamo lo Yogurt, ma anche il botulino e il colera.
Nel 1865 Gregor Mendel descriveva i meccanismi dell’ereditarietà, e poche decine di anni dopo cominciavano le indagini sulle modifiche genetiche indotte. Nel 1927 Muller mostrò come fosse possibile, mediante i raggi X (quelli con cui vi fate le lastre) modificare geneticamente il moscerino della frutta (la Drosophila melanogaster). L’anno successivo Stadler compie i primi esperimenti con i cereali cercando di modificarli geneticamente con radiazioni nucleari. Stadler cercava in questo modo di ottenere piante con caratteristiche migliorate. Non ebbe molto successo, ma ormai la via era aperta. Dopo la seconda guerra mondiale iniziarono i cosiddetti “usi pacifici dell’energia atomica“. Molti giovani ricercatori nelle nazioni sviluppate ed in quelle in via di sviluppo cominciarono ad utilizzare le radiazioni nucleari con l’obiettivo di modificare le caratteristiche delle piante esistenti. All’inizio i risultati furono piuttosto modesti. Si capì che le radiazioni nucleari erano troppo devastanti, e la stragrande maggioranza delle piante mutate non sopravviveva. Furono scoperte anche delle sostanze chimiche che inducevano mutazioni, come la colchicina. Piano piano si imparò a domare la potenza distruttiva delle radiazioni alfa, beta e gamma, a controllare i neutroni, a dosare i raggi X e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) e la FAO finanziarono e sponsorizzarono una serie di ricerche sulle mutazioni indotte allo scopo di migliorare le caratteristiche di prodotti agricoli.
Gli esperimenti su larga scala però vengono effettuati in campo aperto, in quello che viene chiamato un Gamma Field, un Campo Gamma, di cui potete vedere una foto aerea.
Al centro del cerchio viene messa la sorgente radioattiva, e nei vari settori del cerchio, a varie distanze, vengono piantati i semi delle piantine che si desidera mutare geneticamente. L’esposizione diminuisce all’aumentare della distanza e quindi in questo modo è più facile trovare la dose di radiazioni che genera dei mutanti senza uccidere immediatamente.
Come oggi la FAO sostiene l’uso delle biotecnologie agrarie, così negli anni ‘70 non ebbe paura di sostenere l’utilizzo dell’energia atomica per migliorare cereali e altre piante. Un articolo della Divisione di Tecniche Nucleari in Agricoltura, della FAO/IEAE descrive varie colture mutate ormai diffuse e commercialmente affermate. Ve ne descrivo qualcuna.
FruttaIl database FAO/IAEA segnala almeno 48 tipi di frutta: mele, banane, albicocche, pesche, pere, melograno… Ma la varietà commercialmente di maggiore successo è sicuramente una varietà di pompelmo che tutti voi conoscete: lo Star Ruby dalla polpa rosata. No, il pompelmo rosa non è sempre esistito! La prima varietà commerciale di
pompelmo dalla carne rosata è stato il Ruby Red, derivato da una mutazione spontanea scoperta in Texas nel 1929. Tuttavia il colore rosso sbiadiva all’avanzare della stagione, e il succo non aveva un colore gradevole. Furono utilizzati dei fasci di neutroni lenti per irradiare dei semi di pompelmo, e nel 1970 venne introdotta in commercio la varietà Star Ruby, senza semi e dalla polpa rossastra. Ulteriormente irradiato con neutroni lenti, la Star Ruby generò nel 1984 la varietà Rio Red, con rese migliorate. I frutti di entrambe le varietà mutanti, vendute con il nome di Rio Star, coprono il 75% della produzione Texana di Pompelmo.
Orzo per la birra
I primi esperimenti di mutazione indotta di Stadler, nel 1928, riguardavano l’orzo. Quaranta anni più tardi due varietà di orzo geneticamente modificate con raggi gamma, il Diamant e il Golden Promise avranno un impatto profondo sull’industria della birra e del Whisky in molti paesi d’Europa. La varietà Diamant fu rilasciata per la prima volta in Cecoslovacchia nel 1965. Le piantine erano 15 cm più basse della varietà da cui derivavano e avevano una resa per ettaro aumentata del 12%. Nel 1972 il 43% della superficie di orzo era dedicata al Diamant, e il gene mutato si è diffuso ad altre 150 varietà di orzo attraverso incroci convenzionali. In Scozia fu la varietà Golden Promise, anche lei ottenuta mediante irraggiamento gamma, a diffondersi nell’industria della birra e del Whisky. Ancora oggi, dopo più di 30 anni dalla sua creazione, questa cultivar è ancora molto diffusa.
Grano duro
Alla fine degli anni ‘60 nei laboratori del CNEN (Comitato Nazionale Energia Nucleare, poi trasformato in ENEA), al Centro Studi Nucleari della Casaccia il gruppo del Prof. Scarascia Mugnozza irraggia con fasci di neutroni una gloriosa varietà di grano duro, il Cappelli. (La storia di questo grano, protagonista della cosiddetta “battaglia del grano” nel ventennio fascista, andrebbe raccontata in tutti i particolari con tutti i personaggi: dal Senatore Cappelli, da cui prende il nome, al genetista agrario Nazareno Strampelli, anticipatore di decenni della rivoluzione verde). Come al solito, la stragrande maggioranza dei semi irradiati muore, o produce piante abnormi. Ma una pianticella sopravvive e mostra caratteristiche interessanti. E’ più bassa, più resistente e con rese maggiori del Cappelli. Quel mutante viene incrociato con altre varietà di grano, per trasferire le caratteristiche interessanti, e nel 1974 viene registrato il Creso. Nel giro di pochi anni diventa il grano duro d’elezione, e tutti voi ne avete mangiato a quintali sotto forma di spaghetti, penne, rigatoni, maccheroni etc. Nel 1984 il Creso occupava il 53.3% del mercato italiano di semi certificati di grano, ed era coltivato su 430.000 ettari.
Pasta Radioattiva?
Nel 2000 l’IEAE/FAO pubblicizza il sito web con il suo database e descrive in un articolo gli sviluppi degli ultimi 70 anni del campo della mutagenesi indotta sulle piante in agricoltura. Nel maggio del 2001 un giornalista di un quotidiano tedesco (la Frankfurter Allgemeine Zeitung) pubblica un articolo descrivendo il rapporto. E cita, come ho fatto io, i casi del Pompelmo Texano, della Birra, del Whisky e altri esempi presi dall’articolo dell’IAEA. Cita, come è giusto, anche il grande successo del Creso, dicendo correttamente che la maggior parte della produzione italiana di pasta dipende da questo grano e dai suoi derivati, figli dell’Era Atomica.
Apriti cielo! Quando un’agenzia di stampa rilancia in Italia la notizia, nelle redazioni dei giornali, opera di giornalisti troppo spesso a digiuno di scienza, esplode la febbre degli spaghetti radioattivi. Qualche giornalista, senza prendersi la briga di telefonare ad un Istituto di Agraria delle nostre Università per chiedere spiegazioni, sente la parola “radiazioni”, la accosta agli spaghetti ed ecco servita la pasta radioattiva. Il Ministro dell’Agricoltura dell’epoca, Onorevole Pecoraro Scanio minaccia di denunciare l’ignaro giornalista tedesco, dimostrando ancora una volta la legge per cui spesso i ministri non sono competenti in materia: “non subiremo senza reagire questa offensiva contro il made in Italy. Ho incaricato l’ufficio legale di provvedere a tutelare gli interessi dei nostri produttori. La pasta italiana è sicura al cento per cento“.
La pasta ovviamente non è radioattiva, ma nessuno lo aveva mai messo in dubbio. Le radiazioni, come vi ho spiegato, sono solo servite per indurre una mutazione nella prima pianticella.
(il resto dell'articolo è su: http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/09/29/radiazioni-nucleari-nell’orto/)
(nelle foto: un “campo gamma” e un laboratorio dove si usa del Cesio 137 radioattivo per irraggiare con raggi gamma in basse dosi piante e semi riposti nei ripiani degli armadietti)

lunedì 14 marzo 2011

Uno storico menu del 1883

(articolo da: http://www.accademiabarilla.it/)


L'eco della marcia nuziale di Mendelssohn si era appena spento, quando a molti invitati venne l'acquolina in bocca leggendo su di una piccola pergamena quello che stava per essere servito sulle regali tavole.

Cadeva il 14 aprile 1883. Nel castello di Nymphenburg in Baviera, il principe reale di Savoia-Genova, Tommaso Alberto Vittorio, duca di Genova, era a fianco della giovane novella sposa, S.A.R. Isabella di Baviera.
Mettendosi finalmente a sedere sulle poltrone di velluto azzurro, colore della Casa regnante, delicatamente sospinte da valletti in alta tenuta, gli sposi avevano dato inizio al pranzo di gala delle loro nozze.
Così come fecero allora i convitati, meno commossi dei principi e con un robusto appetito che si era accresciuto durante la complicata cerimonia, conviene anche a noi, ora, dare un'occhiata al regale menu.
Si tratta di un cilindretto lungo tredici centimetri, chiuso alle due estremità da due corone reali di metallo dorato girevoli e rivestito di seta blu a losanghe di blu più intenso, colori e simboli araldici della Casa Reale di Baviera.
Attorno al cilindro, un nastro sottile a spirale a tre colori: il bianco, rosso e verde dei Savoia, quasi a significare l'abbraccio dello sposo che avvolge la sposa.
Lungo il cilindro si apre una fessura dalla quale esce appena un lembo di pergamena fissato con un nastrino ad una asticciola in ebano, a sua volta collegata alle estremità con una cordicella ritorta a due colori ad un sigillo metallico dorato che recava, in rilievo, il leone rampante della Casa reale di Baviera.
Tirando dolcemente il sigillo si svolge una pergamena lunga ventun centimetri ed alta poco più di undici, decorata, all'intorno, da simboli araldici: a sinistra la figura di un paggio in abiti rinascimentali che regge con il braccio destro gli scudi delle due Case regnanti e con il sinistro indica le portate del menu, che si riavvolge girando delicatamente le corone in senso inverso.
Le portate meritano una attenta lettura. Per essere "à la page" nelle Corti e nelle Case dei potenti si doveva immaginare, pensare e scrivere di cucina secondo i dettami dei grandi cuochi francesi. Soggezione e imitazione non significano però necessariamente esatta e felice interpretazione o alta cucina impeccabile.
Si inizia con le ostriche. Il potage caldo, che apre opportunamente lo stomaco è seguito dall'Hors-d'œvre, con un ottimo Salmone del Reno, ma servito con una Sauce Bernaise, utilizzata solitamente per carni alla griglia. Alle Atelettes al fois gras succede una insolita Sella di renna, servita però con una Salsa Cumberland abitualmente associata alla selvaggina fredda.
Le Entrée propongono nuovamente selvaggina, con delle modeste beccacce primaverili, magnificamente guarnite, però, con tartufi, per poi tornare, poco opportunamente, al pesce, con aragoste e sauce mayonnaise, creando qualche difficoltà col vino. La Granita d'Ananas, allora non certo alla portata di tutti come oggi, alleggerisce e prepara all'Arrosto di Polletti (ma dopo le beccacce meglio sarebbe stato un arrosto di bue) con Asparagi.
Il pranzo regale si concludeva con Gelatina al vino di Champagne, Gelato, Frutta e Dessert.
Il menu si caratterizza, comunque, per la classica successione e per le presenze "canoniche" del brodo in apertura, degli arrosti e del dessert finale.
Però, ad un evidente intento di magnificenza e ricercatezza dei singoli cibi non fa seguito un corretto ordinamento dei piatti ed una oculata gestione dei vini. Poteva accadere anche alla Corte di un Re…
(testo e immagine da: http://www.accademiabarilla.it/)

domenica 13 marzo 2011

Storia gastronomica dell'Unità d'Italia

(articolo da: http://www.academiabarilla.it/ )
La storica e prolungata divisione amministrativa in numerosi "stati" aveva favorito la nascita di cucine locali, esaltate, negli aspetti più alti, dalle singole Corti che, a fianco di cibi e menu "internazionali", non disdegnavano di inserire il meglio delle tipicità locali.
Divisi politicamente e divisi gastronomicamente, gli italiani avevano però saputo valorizzare le risorse di ogni territorio, sviluppando una "diversità", o meglio, una "gastro-diversità" sconosciuta negli Stati unitari che avevano ormai codificato una "cucina nazionale", forse meno ricca, ma sicuramente più rappresentativa.
È il caso, ben noto, della Francia, (la cui cucina, peraltro, molto deve, storicamente, all'Italia) che impone la propria gastronomia a livello internazionale: la cucina "ufficiale" delle Corti d'Europa è francese, come i menu e la lingua di cucina. E anche i pranzi ufficiali del neonato Stato italiano non sfuggono, paradossalmente, a questa logica e vengono descritti in francese, almeno fino al primo decennio del Novecento, quando sarà un motu proprio di Vittorio Emanuele ad introdurre la lingua patria sui menu di Casa Savoia.
La ricchezza e varietà della cucina italiana - ben delineata dal suo primo "codificatore", il romagnolo Pellegrino Artusi (1820-1911), che nel suo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato la prima volta a Firenze nel 1891, dà sistematicità ed organizzazione alla cucina della nascente borghesia italiana, recupera i piatti più popolari e "semplifica" le preparazioni delle cucine di Corte ad uso di una classe sociale in progressiva crescita economica e sociale.
Ma, seppure l'Artusi abbia l'indubbio merito di aver unito gli italiani (almeno a tavola), le sostanziali diversità regionali permangono anche a livello gastronomico.
Le guerre mondiali
Paradossalmente, è il primo conflitto mondiale che contribuisce, attraverso i razionamenti e la distribuzione di un rancio uniforme, a creare un modello alimentare nazionale e ad indurre aspettative di consumo ben diverse rispetto alle precedenti abitudini dei soldati: il caffè viene assegnato d’ufficio, così come altri alimenti (400 g di gallette, 200 g di carne in scatola, pasta secca, brodi concentrati e ragù pronti). Il nuovo gusto di massa così determinato, si consoliderà successivamente grazie all’azione capillare dell’industria conserviera.
Il Ventennio (1922-1942) è contrassegnato da una politica di contenimento dei consumi alimentari e da una spinta all’autarchia che, in ambito culinario, portano all’esaltazione degli antipasti e dei prodotti locali (salumi, conserve, sottoli e sottaceti) e, a livello nutrizionale, spingono la popolazione a scegliere una dieta fondata principalmente sui frutti e le messi della terra patria. Così, ancora una volta, il nostro Paese deve rinunciare alla carne e, per amore o per forza, si allinea a quella “dieta mediterranea” che, per ironia della sorte, dopo pochi decenni sarà tanto - e giustamente - celebrata dai nutrizionisti stranieri.
Ben diverso, è il caso della seconda guerra mondiale, segnata in modo drammatico, questa volta, dai tesseramenti alimentari e dall’incapacità dello Stato di far fronte alle necessità energetiche dei militi e dei comuni cittadini. In questi terribili anni, l’Italia raggiunge livelli nutrizionali bassissimi, tali da far temere per la stessa sopravvivenza della Nazione.
Il dopoguerra e il boom economico
La ricostruzione materiale del Paese porta la voglia, in cucina, di ostentare il benessere e l'abbondanza: finalmente la carne - vero e proprio status symbol - arriva sulle mense di tutti e le preparazioni si fanno ricche, elaborate, ridondanti.
Dopo i favolosi anni del “boom” economico, l’Italia si ritrova totalmente cambiata. L’industria alimentare utilizza ormai in modo disinvolto le tecnologie per creare cibi tradizionali e innovativi e, forse proprio per questo, dagli anni Settanta si percepisce un diffuso desiderio di ritorno alla natura sana ed incontaminata - è il processo noto come greening of demand - che i pubblicitari non tardano a cavalcare. Le differenze nei comportamenti di consumo, tra Nord e Sud del Paese, si sono finalmente livellate, anche grazie all’ingente emigrazione interna tra 1955 e 1971.
La nascita di una società veramente moderna, ha determinato la diffusione di diverse abitudini alimentari: ad esempio, il più rilevante ricorso alla ristorazione extradomestica; il consumo di snack e cibi pronti; la destrutturazione dei pasti (metafora di profondi cambiamenti sociali); la sempre più evidente delocalizzazione dei prodotti.
La globalizzazione e la difesa dei prodotti tipici
Il fenomeno economico e culturale della globalizzazione che ha preso piede dagli anni Ottanta del Novecento e connota la società contemporanea in modo sempre più marcato, ha contribuito a far nascere il concetto di "prodotto locale".
In precedenza, infatti, le tradizioni rurali erano percepite, semplicemente e acriticamente, come abitudini radicate e immutabili.
Il fattore-piacere rimane essenziale, e il concetto di "qualità" diviene ogni giorno, più importante sposandosi con la valorizzazione di "tipicità" e "giacimenti gastronomici" locali di cui l'Italia è, fortunatamente, ancora ricchissima.
Così che, nella cucina "globale" e di massa la "gastro-diversità" diviene fattore strategico di fondamentale importanza.
(immagini da: http://www.gdapress.it/ e http://www.tipicamente.it/)

sabato 12 marzo 2011

DAIFUKU

Daifuku è un dolce tipico giapponese composto da un mochi (dolce di farina di riso), che si può colorare a piacere, ripieno di anko (una specie di marmellata di fagioli rossi azuki).

Originariamente i Daifuku erano chiamati Harabutu Mochi, che significa “dolce di riso dalla pancia gonfia” proprio per il tipico ripieno che lo caratterizza. Per la sua buffa forma era considerato uno tra i Wagashi (dolci tipici giapponesi) più brutti. Successivamente però il nome venne cambiato in “dolce di riso dalla grande pancia“. Poichè però la pronuncia di “pancia” è uguale a quella di “fortu
na” (cioè “Fuku=福), il nome cambiò completamente in Daifuku Mochi, cioè “dolce di riso della grande fortuna“, diventando addirittura regalo da cerimonia o dolce portafortuna.
Preparare un Daifuku non è difficile e non sono necessari molti ingredienti. Servono infatti solo: acqua, farina di riso, anko e zucchero.
Il tipico Daifuku è quello servito con il ripieno di anko e ricoperti all’esterno con un sottilissimo strato di amido di mais o zucchero a velo per impedire che, appiccicoso com’è, si attacchi alle dita.
      Esistono però altre varianti di questo dolce come lo Yomogi-Daifuku, una varietà preparata con il kusa-mochi, un dolce all’aroma di artemisia, oppure l’Ichigo-Daifuku, una varietà di Daifuku molto famosa introdotta negli anni ‘80.
Quest’ultima variante è molto particolare, famosa perchè contiene al suo interno oltre ad anko anche una fragola, purtroppo però è possibile mangiarlo solo in primavera con la stagione delle fragole.
 (testo da: http://sakuramagazine.com;  foto dal web)

giovedì 10 marzo 2011

PEPERONI FARCITI

Tagliare in quattro e ripulire dai semi dei peperoni gialli o rossi. Cuocerli qualche minuto in forno o in microonde o sbollentarli.  Io li metto nel microonde per 5 o 8 minuti, rigirandoli una volta sottosopra in modo da ammorbidire anche la pelle, che però poi lascio. Spalmare su ogni fetta di peperone della crema di acciughe (si trova in commercio in vasetti di vetro: è fatta con acciughe, olio, aceto, erbe aromatiche) oppure con pasta d'acciughe. Sistemare poi su ogni fetta di peperone una fettina di mozzarella. Mettere in una teglia e cuocere in forno a media temperatura per pochi minuti, finchè la mozzarella non sia morbida. Servire tiepido.