(articolo da: http://www.academiabarilla.it/ )
La storica e prolungata divisione amministrativa in numerosi "stati" aveva favorito la nascita di cucine locali, esaltate, negli aspetti più alti, dalle singole Corti che, a fianco di cibi e menu "internazionali", non disdegnavano di inserire il meglio delle tipicità locali.
Divisi politicamente e divisi gastronomicamente, gli italiani avevano però saputo valorizzare le risorse di ogni territorio, sviluppando una "diversità", o meglio, una "gastro-diversità" sconosciuta negli Stati unitari che avevano ormai codificato una "cucina nazionale", forse meno ricca, ma sicuramente più rappresentativa.
È il caso, ben noto, della Francia, (la cui cucina, peraltro, molto deve, storicamente, all'Italia) che impone la propria gastronomia a livello internazionale: la cucina "ufficiale" delle Corti d'Europa è francese, come i menu e la lingua di cucina. E anche i pranzi ufficiali del neonato Stato italiano non sfuggono, paradossalmente, a questa logica e vengono descritti in francese, almeno fino al primo decennio del Novecento, quando sarà un motu proprio di Vittorio Emanuele ad introdurre la lingua patria sui menu di Casa Savoia.
La ricchezza e varietà della cucina italiana - ben delineata dal suo primo "codificatore", il romagnolo Pellegrino Artusi (1820-1911), che nel suo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato la prima volta a Firenze nel 1891, dà sistematicità ed organizzazione alla cucina della nascente borghesia italiana, recupera i piatti più popolari e "semplifica" le preparazioni delle cucine di Corte ad uso di una classe sociale in progressiva crescita economica e sociale.
Ma, seppure l'Artusi abbia l'indubbio merito di aver unito gli italiani (almeno a tavola), le sostanziali diversità regionali permangono anche a livello gastronomico.
Le guerre mondiali
Paradossalmente, è il primo conflitto mondiale che contribuisce, attraverso i razionamenti e la distribuzione di un rancio uniforme, a creare un modello alimentare nazionale e ad indurre aspettative di consumo ben diverse rispetto alle precedenti abitudini dei soldati: il caffè viene assegnato d’ufficio, così come altri alimenti (400 g di gallette, 200 g di carne in scatola, pasta secca, brodi concentrati e ragù pronti). Il nuovo gusto di massa così determinato, si consoliderà successivamente grazie all’azione capillare dell’industria conserviera.
Il Ventennio (1922-1942) è contrassegnato da una politica di contenimento dei consumi alimentari e da una spinta all’autarchia che, in ambito culinario, portano all’esaltazione degli antipasti e dei prodotti locali (salumi, conserve, sottoli e sottaceti) e, a livello nutrizionale, spingono la popolazione a scegliere una dieta fondata principalmente sui frutti e le messi della terra patria. Così, ancora una volta, il nostro Paese deve rinunciare alla carne e, per amore o per forza, si allinea a quella “dieta mediterranea” che, per ironia della sorte, dopo pochi decenni sarà tanto - e giustamente - celebrata dai nutrizionisti stranieri.
Ben diverso, è il caso della seconda guerra mondiale, segnata in modo drammatico, questa volta, dai tesseramenti alimentari e dall’incapacità dello Stato di far fronte alle necessità energetiche dei militi e dei comuni cittadini. In questi terribili anni, l’Italia raggiunge livelli nutrizionali bassissimi, tali da far temere per la stessa sopravvivenza della Nazione.
Il dopoguerra e il boom economico
La ricostruzione materiale del Paese porta la voglia, in cucina, di ostentare il benessere e l'abbondanza: finalmente la carne - vero e proprio status symbol - arriva sulle mense di tutti e le preparazioni si fanno ricche, elaborate, ridondanti.
Dopo i favolosi anni del “boom” economico, l’Italia si ritrova totalmente cambiata. L’industria alimentare utilizza ormai in modo disinvolto le tecnologie per creare cibi tradizionali e innovativi e, forse proprio per questo, dagli anni Settanta si percepisce un diffuso desiderio di ritorno alla natura sana ed incontaminata - è il processo noto come greening of demand - che i pubblicitari non tardano a cavalcare. Le differenze nei comportamenti di consumo, tra Nord e Sud del Paese, si sono finalmente livellate, anche grazie all’ingente emigrazione interna tra 1955 e 1971.
La nascita di una società veramente moderna, ha determinato la diffusione di diverse abitudini alimentari: ad esempio, il più rilevante ricorso alla ristorazione extradomestica; il consumo di snack e cibi pronti; la destrutturazione dei pasti (metafora di profondi cambiamenti sociali); la sempre più evidente delocalizzazione dei prodotti.
La globalizzazione e la difesa dei prodotti tipici
Il fenomeno economico e culturale della globalizzazione che ha preso piede dagli anni Ottanta del Novecento e connota la società contemporanea in modo sempre più marcato, ha contribuito a far nascere il concetto di "prodotto locale".
In precedenza, infatti, le tradizioni rurali erano percepite, semplicemente e acriticamente, come abitudini radicate e immutabili.
Il fattore-piacere rimane essenziale, e il concetto di "qualità" diviene ogni giorno, più importante sposandosi con la valorizzazione di "tipicità" e "giacimenti gastronomici" locali di cui l'Italia è, fortunatamente, ancora ricchissima.
Così che, nella cucina "globale" e di massa la "gastro-diversità" diviene fattore strategico di fondamentale importanza.
(immagini da: http://www.gdapress.it/ e http://www.tipicamente.it/)
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