martedì 6 ottobre 2009

Le regole del gioco, di Massimo Montanari (su www.italMenSa.net)


É di gran moda proporre pranzi storici o d'autore. Sedersi a tavola non solo per mangiare, ma per riassaporare il gusto di ambienti, situazioni, eventi del passato. Trasformare l'occasione conviviale in una piacevole avventura intellettuale. Domandiamoci allora: ha senso tutto ciò? Esiste - al di là del puro divertimento, che in ogni caso rimane la molla fondamentale di queste sperimentazioni cucinarie - una possibilità effettiva di ricostruire l'esperienza e il gusto alimentare di uomini che sono vissuti prima di noi, magari molti secoli fa? Il problema si pone su due piani diversi. Uno è quello del gusto inteso come sapore, come sensazione individuale della lingua e del palato: esperienza per definizione soggettiva, sfuggente, incomunicabile (persino tra i commensali di una stessa tavola). Da questo punto di vista, l'esperienza storica del cibo è inevitabilmente e irrimediabilmente perduta.


Ma il gusto è anche sapere, è valutazione sensoriale di ciò che è buono o cattivo, di ciò che piace o dispiace. Una valutazione che viene dalla mente prima che dalla lingua e, che evidentemente non coincide con la prima ma che in larga misura la condiziona, si può ben indagare anche storicamente, attraverso l'esame dei documenti (scritti, figurativi, materiali) che testimoniano i vari aspetti delle società del passato: anche l'estetica, i valori, i metri di giudizio.


Esiste tuttavia un problema-chiave nel fare cucina storica, ed è quello di individuare il corretto confine tra comprensione del passato e adattamento all'oggi, ricostruzione e rielaborazione, studio filologico (in questo caso, dei libri di ricette) e restituzione pratica (in cucina). Diciamolo subito: quel confine è difficilmente identificabile a priori e, per così dire, a freddo. Solo la sensibilità e l'esperienza di chi si impegna in questa avventura possono situarlo convenientemente e, comunque, all'insegna di una permanente precarietà, data la contraddizione fra i due livelli di approccio di cui si diceva: se la cultura gastronomica di una data epoca si può studiare e decodificare con sufficiente esattezza e credibilità, il passaggio al livello sperimentale (le sensazioni individuali dei sapori) rimane in larga misura velleitario. Il fatto è che il soggetto e l'oggetto sono entrambi cambiati: i consumatori non sono più gli stessi e la loro educazione sensoriale è diversa; i prodotti sono anch'essi certamente cambiati, anche se portano lo stesso nome di un tempo. Situazione a dir poco disperante per chi presumesse di raggiungere un risultato filologicamente plausibile. Dal punto di vista dell'emozione soggettiva, non è affatto detto che la fedeltà filologica al testo sia il modo migliore per ricostruire la sensazione di un tempo. I cibi troppo speziati del Medioevo, o quelli troppo grassi di certa cucina ottocentesca, per gli uomini del tempo non lo erano affatto. Perciò potrebbe accadere che il un certo grado di adattamento - sapientemente controllato - risulti alla fine assai più fedele della fedeltà formale : due sensazioni oggettivamente diverse potrebbero paradossalmente coincidere dal punto di vista soggettivo, data la coincidenza fra aspettativa e risultato. In ogni caso, non lo sapremo mai.


Accontentiamoci dunque di approssimazioni, di una curiosità destinata a rimanere epidermica anche se intellettualmente vigile e preparata: un po' come quando si fa un viaggio in paesi lontani e si incontrano culture estranee alla nostra. La storia è un viaggio nel tempo e di ogni viaggio possiede, oltre al fascino, le difficoltà e le contraddizioni. I pranzi storici prendiamoli soprattutto come un gioco, con la consapevolezza che il gioco è una faccenda estremamente seria, che richiede conoscenza e rispetto delle regole. Nel caso nostro, la prima regola è di avvicinarci alle culture, ai personaggi e agli eventi del passato con impegno e curiosità; di documentarci in modo preciso e senza presunzione di superiorità. Solo in questo modo ci sarà possibile capire e, al tempo stesso, divertirci.

Massimo Montanari


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