Federico II è forse il solo personaggio del Medioevo che sia riuscito a trasformare la sua vita in mito, leggenda, poesia, conquistando la solidarietà morale e culturale anche del più accanito dei suoi detrattori. La leggenda di Federico continuò a diffondersi e a vincere, per dirla col poeta, “di mille secoli il silenzio” ; proverbiali sono il suo splendore, cortesia, magnanimità; la sua corte ospita da ogni parte del mondo musicisti, artisti e poeti e gli echi delle riunioni festose, di intrattenimenti e raffinatezze mondane, della gioia di vivere volta all’attimo fuggente, improntano indelebilmente la memoria dei contemporanei. Agli occhi di Dante, Federico II incarna, a differenza dei monarchi del suo tempo, quella monarchia universale che, dopo la caduta dell’impero romano, solo Carlo Magno si era impegnato a restaurare, legittimandola cristianamente nella difesa della Chiesa. E della monarchia universale Federico pose realmente le basi, se non politiche, certo culturali, con quel cosmopolitismo che, anticipando di oltre due secoli il Rinascimento, aprì l’Europa a quel patrimonio di cultura greco-latina di filosofia, medicina, letteratura, scienza, che era stato gestito dall’Islam, e l’Occidente ignorava quasi del tutto. In quest’ottica vanno visti gli intensi rapporti col mondo arabo, i legami strettissimi che Federico intrecciò con la cultura di diversi Paesi europei, la fondazione, con la scuola siciliana, della letteratura italiana, che accusava, rispetto alle altre letterature romanze ed europee, un ritardo di due secoli. Oggi possiamo aggiungere che patrocinò anche nel campo della dietetica e della gastronomia un salto di qualità straordinario. In un recente volume, “I ricettari di Federico II” (Olschki, Firenze 2005), Anna Martellotti, compie un esemplare studio filologico e comparativo dei maggiori ricettari medievali a noi pervenuti in copie posteriori: il “Liber de coquina”, il “Tractatus”, il Libro de la cocina” e il cosiddetto “Meridionale”.La Martellotti dimostra che questi ricettari, redatti rispettivamente in latino parlato, latino letterario, volgare toscano e volgare meridionale, non possono che essere stati ispirati da Federico II, e dunque elaborati nella sua corte. Se le ricette riferite direttamente a Federico II (come i cavoli “secundum usum imperatoris”) o all’ambiente federiciano (cime di rapa a usanza dei marchesi) non sono numerose, molteplici sono invece le testimonianze in trattati gastronomici successivi, del Quattrocento-Cinquecento, sul ruolo decisivo che Federico II e suo figlio Manfredi ebbero anche in questo campo: vi vengono infatti citati piatti come le “frittelle dell’imperatore”, la “torta manfreda”, la “torta manfreda di fava fresca”, ecc.
Come sottolinea F. Braudel, prima del secolo XV o XVI in Europa non esiste un vero e proprio lusso della tavola e sotto questo aspetto l’Occidente fa segnare un notevole ritardo rispetto ad altre civiltà. Si consideri ancora che nell’Occidente medievale, vuoi per la tradizione millenaria della frugalità romana, vuoi per i modelli di sobrietà propagandati dalla Chiesa, non c’è spazio per le raffinatezze gastronomiche, e non ce ne può essere anche perché mancano le risorse in termini di conoscenze. Federico II, invece, possedeva un’imponente biblioteca, in parte ereditata dai re normanni, che annoverava libri provenienti da ogni parte del mondo: in quale altra fucina si sarebbero potuti redarre ricettari in volgare, tradurli in latino, con il sostegno di cuochi esperti e di medici ferrati nella dietetica araba? Federico era molto sobrio a tavola: una delle sue pietanze predilette era il cosiddetto biancomangiare, che, piuttosto che un particolare piatto, sembra designare una serie di piatti con alcuni ingredienti in comune, in particolare il latte e le mandorle. Il biancomangiare poteva essere di carne o di pesce, o anche, per i giorni di magro, di semplice semola cotta nel latte, con pepe e zafferano, la cosiddetta “simula appula”, la semola pugliese. La carne del biancomangiare era costituita da petti di pollo, sfilacciati finemente e cotti nel latte, in cui erano state stemperate farina di riso e mandorle tritate. In una variante anziché la farina era usato il riso in chicchi. Si tratta, comunque, di una rielaborazione alleggerita di un piatto arabo, che non manca, nella versione originale, nei ricettari menzionati (il brodo saraceno, il biancomangiare di Siria, il “blaundysorye”), e che doveva essere molto meno digeribile, contemplando petti e fegatini di capponi arrostiti, pestati nel mortaio con pane abbrustolito, e quindi bolliti con prugne, datteri, uva sultanina, mandorle e lardo. L’intervento di Federico in questi ricettari è ulteriormente sottolineato dalla compresenza, in linea col suo cosmopolitismo, di piatti che rinviano a diversi Paesi. A scorrere questi ricettari appare evidente che la più vistosa differenza con la nostra cucina sta nei condimenti, che fanno larghissimo uso di spezie. Un esempio: per la salsa verde vengono citati ingredienti in uso tuttora, come prezzemolo, aglio, mollica di pane, aceto (non si fa menzione né di olio, né di acciughe), ma vi si aggiungono cardamomo, garofano, menta, noce moscata, zenzero. Ancora, per friggere, ma anche per i soffritti dei brodi, sia di carne che di pesce, si usa soprattutto il lardo. Nella preparazione degli arrosti, nelle salse di accompagnamento e nelle farciture, rientrano tranquillamente non solo succo di limone o d’arancia, ma, in abbondanza, zucchero e miele, in un composto agrodolce decisamente incompatibile con la nostra tradizione mediterranea, molto meno forse con la cucina della Mitteleuropa. Tra gli animali commestibili non mancano proposte che oggi sembrerebbero strane, come i cigni, le gru e i pavoni; pur tuttavia le ricette riguardano in prevalenza animali domestici, tra i volatili il pollo, tra gli altri maiali e castrati. Ancora alla Mitteleuropa rimandano gli gnocchetti fritti, le crespelle e le frittelle, per accompagnare le pietanze al posto del pane. Decisamente più semplici i piatti di pesce.
(fonte: Accademia Italiana della Cucina)
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