lunedì 5 ottobre 2009

Sono stati i mercanti e non i guerrieri a diffondere cibo e cultura. Giovanni Rebora – IL SECOLO XIX – 15/04/2001




Sia che si tratti di dieta mediterranea, sia che si tratti di Italian way, o di altri tentativi di imbalsamare in una locuzione un insieme complesso e sempre sorprendente di modi di mangiare, è pur vero che ci sono, nel Mediterraneo, alcuni cibi apparentemente differenti che, se si osservano con attenzione e con qualche conoscenza della materia, ci si accorge che in fondo in fondo sono molto simili tra loro.

Il viandante il quale si trovasse a pranzo o a cena in una taverna di Tunisi potrebbe vedersi servire il kusckussou e trovarlo molto simile al pilau di Carloforte e Calasetta fatto con la fregola che è la stessa parte del soccu di Alghero o del couscoussou di Provenza, oppure del soccu dell'imperiese ed infine dello scoccozò che un tempo si metteva nei minestroni genovesi. Non si tratta del couscous, è un'altra cosa, ma a Tunisi o al Cairo lo stesso viandante potrebbe imbattersi nel couscous quello vero col montone e non quello “di pesce” confezionato per i turisti.

Ebbene, nonostante le differenze di spezie e di sapori, nonostante le differenti cotture, troverebbe che quella confezione è uguale a quella che gli viene proposta dai discendenti dei corallatori di Trapani o dai discendenti dei corallatori di Carloforte che abitavano a Tabarca prima del 1730 sia sotto forma di kusckussou; i corallatori che pescavano corallo sulle barche dei Lomellini, ricevevano una forte quantità di quelle palline di pasta, secche e conservabili, che venivano cotte sia nella minestra di verdura sia, in forma di “pilau” (pilaff), come se si trattasse di riso insaporito con il brodo ed il sugo della granceola (Maya squinado).

Questi cibi erano nel Mediterraneo alcuni secoli or sono ed erano presenti ovunque fossero presenti genovesi, catalini o altri commercianti che avevano deciso di risiedere lontano dal loro paese e che, al momento di rimpatriare, insieme con i loro cuochi, si portavano a casa le cose che avevano trovato buone nel lungo soggiorno all'estero. I cibi sono raramente importanti o esportati come frutto di conquista (a parte le derrate alimentari che sono altra cosa rispetto alla cucina), la conquista e la “dominazione” sono altra cosa dallo scambio culturale e troppo spesso gli storici attribuiscono ad effimere presenze “politiche” o militari, la presenza in un territorio di cibi presunti esotici per quel luogo.

Ne sia l'unico esempio la quantità di cose attribuite agli arabi. Gli arabi hanno soggiornato a lungo in Sicilia e soprattutto in Spagna, lì hanno avuto un'effettiva funzione, altrove molto meno, dove troviamo cose arabe lo dobbiamo ai mercanti e mai ai razziatori saraceni né ai crociati: sono stati i mercanti a diffondere cibi e cultura, mai i guerrieri.

Mercanti sia islamici sia cristiani, ma mercanti, perfino l'algebra l'ha studiata un pisano, non certo un guerriero, che ha percorso gran parte delle terre attorno al Mediterraneo: Fibonacci. Il Meditterraneo è stato percorso da fenici, pelasgi, egizi, greci, romani, greci bizantini, amalfitani, arabi, genovesi, pisani, veneziani, catalani e chissà da quanti altri.

Come si fa dire che una è autoctona, originale, esclusiva di un qualsiasi luogo che graviti intorno o dentro a questo mare? Certo che il vino viene (sembra) dall'area ora occupata dall'Armenia e dalla Georgia, vero che lo hanno diffuso i greci, ma ora che s'è mescolato tutto toccherà agli studiosi di genetica dipanare questa matassa.

Il vino e la vite, come anche l'olivo ed il suo olio, anch'esso diffuso dai greci (si veda Lisia: per l'olivo sacro) sono diventati simboli, anche religiosi, per i popoli che vivono intorno a questo bacino. Anche le capre, però, pur provenienti forse dall'Oriente e la cui diffusione è stata da poco attribuita agli arabi, sono tipiche di questi luoghi e con essi i cibi che ne derivano. “Barbam capellae cum impetrassent ab Jave...”, una favola di Fedro (libretto macedone del I secolo d.c., scrisse in latino favole attribuite al greco Esopo, anch'egli schiavo).

Chissà se quelle capre avranno mai pensato che la loro diffusione sarebbe stata attribuita agli arabi (apparsi cinquecento anni dopo Fedro) e chissà mai se qualcuno di quei pescatori con la sciabica, raffigurati nei mosaici pazientemente eseguiti per i committenti romani o bizantini da artigiani di cultura greca, avrà mai pensato che la sua sciabica sarebbe stata attribuita ad un popolo che non ha mai amato né il pesce né la pesca. Gli arabi intendo, che quando conquistavano la Tunisia riservarono l'attività pescatoria ai cristiani cui avevano tolto la terra (Al Bakri – XII secolo), figuriamoci se si sarebbero portati dietro una sciabica “nelle loro frequenti scorrerie”. Fatto sta che, almeno finchè non si sviluppò il fenomeno del turismo, i mediterranei non amarono il pesce.

Infatti non è un mistero per nessuno che nel Mediterraneo la cucina del pesce è approssimativa. Lo so che molti insorgeranno, ma non mi si dica che il pesce fritto, bollito o bruciacchiato sulla brace è un procediemento conducibile alla cucina propriamente detta. Può essere buono, ma non tutto ciò che buono o buonissimo è il risultato di un procedimento alchemico che chiamiamo cucina. Se i mediterranei non amavano il pesce in genere, amavano però il tonno, che offre, come il maiale, tante possibilità di una confezione e quindi di vendita con valore aggiunto.

Il tonno è denaro fin dal tempo dei greci, si può conservare e quindi trasportare lontano dalle coste e ha anche il buon senso di essere programmabile: con un margine ragionevole di errore si sa quando arriverà alla tonnara e si può programmare la mattanza; insomma, si avvicina alla programmazione dell'allevamento; i genovesi lo capirono subito e furono loro ad inventare il tonno sott'olio, sfruttando le eccedenze della produzione di olio commestibile.

Ogni paese della costa, sia in Grecia (alcune isole), sia in Sicilia, in Catalogna oppure in Liguria, provvede a salare le acciughe, le alose (Sicilia), e, in tempi lontani, anche qualsiasi specie conservabile con il sale o con la cottura e successiva conservazione sottaceto: il Sikbay diventerà escabece per gli spagnoli, scapece per l'Italia meridionale o scabeccio per i liguri, ma sarà sempre pesce sottaceto, cioè trasportabile e conservabile per la vendita “differita”. La confezione di bottarga, di haviar (che è la bottarga turca), di taramà in Grecia e di caviale sia lungo il Po sia nel Mar Nero e nel Mar Caspio appartengono alla stessa cultura.



Ognuno conosce la sua pasta, sia all'uovo, fatta in casa con farina di grano tenero, sia secca e prodotta in botteghe artigiane con semola di grano duro, questo prodotto, nato sembra in Sicilia ed immediatamente commercializzato dai genovesi che si affrettarono a produrlo nella loro regione, aveva la straordinaria capacità di sopportare lunghi viaggi, di essere leggero e di non alterarsi, era anche buono e lo è tuttora.

Insomma, non posso tediare i lettori con tutte le cose che si dovrebbero scrivere per rilevare (se ce fosse bisogno) i legami che il cibo conserva tra le varie contrade del Mediterraneo, basterebbero le zuppe di pesce che con nomi differenti rivelano le affinità tra loro e (talvolta antiche) tra le varie popolazioni e mi pare anche che basti la minestra (con cuscus, riso, pasta, ecc.) per convincere il mondo che il mare della verdura e della pasta sia un koiné che può accontentare tutti nel migliore dei modi, con l'aggiunto del porco o dell'agnello.

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